Lucio Barbera - Dina Viglianisi

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Lucio Barbera

Le opere di Dina Viglianisi ci appaiono come racconti tenuti chiusi dall’inconscio che si è liberato per restituirsi alla vita, dopo la forte emozione dell’immagine della morte.
E ciò avviene nel momento in cui “il battello sta navigando nella nebbia carica di pioggia, mentre, in silenzio, ci sfiora un funerale in gondola”. E questa forte emozione che ripropone alla Viglianisi i flussi della memoria, i magnetismi emotivi che la liberano enucleandosi in un solo modo: vivere senza “limiti di spazio nel passato senza limiti di spazio nel futuro”.
Ed è così, che forme e cromatismi, segni e immagini nascono in lei dalla rigenerazione del reale che segna attraverso la simbolicità, e con essa, i più trascendentali significati cosmici.
Tutto sembra rivelarci l’emozione del mistero (il funerale in gondola, la nebbia carica di pioggia, il silenzio), il mare, il cielo, gli scogli, le sue donne senza volto.
É come se un vento soffiasse all’interno di una apparente figurazione per trascinarla in spazi a lei conosciuti; un vento leggero di cui non è facile intendere l’avventura, cioè a dire il suo arrivare da lontano ed il suo approdare ad una sorta di deserto di cose che tanto più appare spogliato di realtà e di pittura, tanto più lì, sommessamente, fa sentire un mormorio, un sussurro, un bisbiglio, un brulicar di vita. Una vita che Dina Viglianisi va catturando nel suo aspetto più segreto, in quel punto dove l’oggettivo e il soggettivo, cioè a dire la realtà e di essa il sentimento, si confondono; dove coesistono la solitudine e la folla, quel che si vede e quel che si pensa, ciò che appare e ciò che esiste; punto di incontro, infine, tra desiderio e volontà.
Di questo misterioso vento occorre parlare, capirne le ragioni, scoprirne le motivazioni e intuirne il senso, se il senso si vuol cogliere di ciò che sulla tela accade con grande sapienza pittorica, affilata in lunghi anni di esercizio e soprattutto attraverso quello straordinario laboratorio che è l’incisione, da sempre e con successo frequentato dall’artista catanese che al suo attivo può vantare l’illustre tirocinio presso l’Istituto d’arte di Urbino. Proprio da qui forse, da ciò che sembra più lontano dall’esito pittorico, dico dall’incisione, bisogna partire per tentare di smontare il complesso organismo pittorico e mettere così a fuoco i suoi diversi meccanismi.
Al di sotto di questa pittura, di cui nulla per adesso si dirà se non il suo apparire quasi pacificata sulla tela in una stesura piatta e frontale ottenuta attraverso un sensibile tonalismo, si avverte, infatti, un solidissimo impianto grafico che si scorge non tanto nella struttura della figurazione, quanto nel condividere, dello statuto incisorio, le intime ragioni. C’è qualcosa di lucidamente preciso che sorregge la figurazione, un impianto lineare di estrema compostezza e sobrietà di cui ogni cosa appare affidata a pochi segni essenziali, elementari, sintetici. É ancora un impianto che ben fa scorgere l’abitudine a dialogare con quelle impercettibili varianti che esistono nel trascorrere dal bianco al nero con tutte le possibili graduazioni.
Sicurezza di linea e, dunque, nel suo successivo sviluppo organizzativo, di forma e affinato senso del colore: ecco cosa, della pratica incisoria, l’artista catanese porta con sè in pittura.
Sono due elementi che se da soli ed in pieno motivano, e sorreggono, i lusinghieri esiti in tal settore raggiunti, poi funzionano come lievito per una più complessa costruzione quando, volontariamente o incosciamente, siano trasferiti nella pittura dove si trovano a combinarsi e a fermentare con altre spinte sia emozionali che espressive.
Ed eccoci, dunque, sulla soglia di una pittura di apparente semplicità che proprio nel suo mostrarsi come al tutto donata ed offerta, nasconde piuttosto un’interna vitalità complessa. Una pittura, cioè, che scatta come una trappola dato, che esiste diversamente da quel che mostra e che trascorre da una visiva semplicità, quasi nuda e spoglia, ad una pensata complessità che subito manifesta tempi lunghi di esecuzione. Siamo, e questo appare chiaro anche a chi di superficialità si nutre, sul terreno opposto della velocità: qui piuttosto la pittura cresce lentamente come faticosa e faticata conquista che con sè porta i dubbi e le incertezze della meditazione e, di lei, anche la consolante quiete. Non c’è nulla di trovato, come accade spesso in quel che si definisce “pittura veloce”, ma piuttosto un successivo mettere a fuoco un’immagine i cui contorni sono ben chiari nel pensiero, ma assolutamente inesistenti nella realtà.
Si annuncia così, nella appena accennata discrasia, il segreto spirito di quel vento che tra poco vedremo soffiare su un impianto figurale di cui e` possibile ancora catturare qualche elemento di conoscenza. Ciò che Dina Viglianisi utilizza è una scarna figurazione che vien poi ambientata in una struttura rigorosamente formale. Sotto il primo aspetto emerge un apparato iconografico che porta alla ribalta della scena pittorica strane figure, spesso di donne senza volto e senza identità, colte in una imperdonabile fissità, quasi monumentale. Donne, o meglio figure e sembianze di donne, avvolte in orientali veli più misteriosi ancora di ciò che in Oriente accade quando, almeno e soltanto due occhi sono chiamati ed offerti ad una sia pur precaria individuazione. Qui, invece, tutto appare non tanto avvolto in quei manti appena intuibili, ma in un unico velo di mistero, si` che infine la stessa spoglia presenza si configura come assordante assenza.
Ed ecco sormontare, proprio come visibile assenza, quella struttura formale che sa di pura atmosfera che tutto circonda e inghiotte in uno spaurente silenzio; ecco apparire, nella sua misteriosa inconsistenza, quel che possiamo per comodità chiamare “atmosfera formale”. Essa è data da pochi elementi quasi geometrici (la linea verticale che apre suggestivi “interni-esterni” o la linea orizzontale di un impalpabile orizzonte) che scandiscono il piano o, molto più spesso, dal colore piatto e riflessivo che si distende sulla tela, sempre mantenute su toni sommessamente chiari e quasi monocromi con delicati ed eleganti accostamenti.
La figura sembra in qualche modo discendere da una ripensata fase postcubista e alla mente richiama il “Ritratto di Mimise” di Guttuso, dipinto nel 1947, sol che qui la scansione dei piani piuttosto che esser ottenuta per mezzo di colori accesi e contrastanti, vien raggiunta attraverso un tessuto cromatico quasi liquido che si avvale di tinte tenui ed evanescenti e di sottilissime graduazioni. Su un tale impianto di fondo, che tuttavia sfuma come un lontano ricordo, ecco delinearsi una straordinaria carica simbolica che con sè porta, al di là delle singole presenze decifrabili, un linearismo quasi simbolista di vigile compostezza e di rarefatta eleganza.
Torna ora a farsi sentire quel misterioso vento e adesso ci viene ad annunciare un estremo abbandono lirico e sentimentale quasi per sortilegio di pittura tenuto sotto il controllo di una razionale misura. Di ciò è responsabile e protagonista certamente la pratica incisoria, ma soprattutto ciò nasce dall’intimo atteggiamento dell’artista di fronte alla realtà. Nasce, questo linearismo, che conosce anche le sottigliezze dell’arabesco ed il gusto un pò decadente di un certo liberty, da un segno preciso e di grande concentrazione che conclude sulla tela un suo lungo tragitto di pensiero; nasce cioè da un preciso possesso di mezzi espressivi, da un gesto pittorico morbido ma al tempo stesso controllato; ma soprattutto nasce, e da lì parte, da un totale abbandono di un’anima sognante, anzi, per dir meglio, costretta a sognare.
Come giustamente ha notato Ferruccio Ulivi qui “siamo ad un passo dal clima onirico; siamo ricacciati dentro la coscienza”. Sono questi, il sogno e la coscienza, i territori che questo misterioso vento attraversa, ma esso proprio da lì si muove, da ciò che sembra al tutto negare ed a cui sembra volgere le spalle, dico cioè dalla realtà.
Si guarda intorno l’artista e intorno a sè vede null’altro che un deserto: tutto appare scivolare in una condannante superficialità e al tempo stesso condannare ad una profonda solitudine in cui naufraga l’attimo come la singola ed irripetibile vita. Di domande senza risposte è popolato questo deserto o, peggio, di assurde e cieche risposte certe che neppure una domanda hanno saputo attendere; di falsità e di apparenze si nutre questo nostro tempo, ormai dimentico di ogni sorriso e di ogni lacrima e piuttosto consegnato a quel rigido efficientismo tecnologico che rischia di travolgere chi quel maledetto passo non mantiene. Ecco la realtà di fronte alla quale l’artista non tanto chiude ma ben spalanca i suoi occhi; occhi di chi, al contrario, si sente partecipe di una più complessa esistenza che non conosce le fratture del tempo, le costrizioni dello spazio o lo spaurente silenzio tra chi piuttosto dovrebbe parlare ed ascoltare.
Più che da una “nostalgia del presente” questa pittura, anzi quel vento che una tal pittura sorregge, sconvolge e ristora, sembra nascere al contrario da una severa condanna di un presente assunto nella sua dissennata e razionale consistenza. Proprio da qui, dall’assunzione piena e totale del deserto nasce, nella lirica coscienza dell’artista, quella volontà di opposizione che, ma soltanto ora, si nutre di sogno e di desiderio. Nasce cioè il vento dallo sconsolato sguardo sul presente visto nella sua soffocante e arida cecità; nasce, per dir tutto, da occhi ben vigili e da una coscienza ferita e lacerata che ben altro avverte e ben altro sogna.
Ecco, solo dopo questa vigile attenzione l’artista chiude i suoi occhi, non per sua colpa divenuti anch’essi ciechi, ed è costretta a guardare della realtà la sua essenza ed il suo contrario. Così questa figurazione, che come la stessa artista dice “deriva dalla figura ma è protesa a trasmutarsi in contorno e linea, a suggerire più che a rivelare spietate o arbitrarie verità”, sconfina certo, anche attraverso i simboli e la sua armoniosa eleganza, nel territorio del sogno e del desiderio, ma di quella assurda realtà porta impresso il ricordo bruciante. Non, dunque, evasione, nè fuga dalla realtà, nè invenzione o ricreazione di un qualcosa di diverso ma piuttosto rappresentazione di quella realtà immateriale che ci circonda con tutte le sue contraddizioni, e che più non scorgiamo; realtà immateriale che pur sfiorando l’assoluta e atemporale fissità della metafisica, tiene sempre ben conficcati i suoi piedi nel presente, anzi dai suoi chiodi se li lascia trafiggere.
E così, se da un lato questa figurazione appare del tutto abbandonata ad un sogno e ad un bisogno di estrema precisione ed attenzione, dall’altro porta con sè la sensazione gelida e sconvolgente del risveglio; se da una parte nel suo lirico tuffarsi nel mistero, che si nutre oltre che di metafore anche di una forte carica letteraria, sembra offrire una consolante quiete, dall’altra della perenne guerra porta la ferita. Ecco quel bisogno di grandi spazi e quel respiro lungo cui sembra ambire una tal pittura, ma ecco ancora quell’opaco colore, come di sbiadita fotografia pur lei ormai incapace di custodire il tempo, a contraddire sul nascere l’illusione.
C’è il sogno ma anche il risveglio, il bisogno e la delusione, la condanna del presente ma anche la sua dolorosa vittoria: così questa figurazione opera come un foro nella realtà per mostrare la sua parte invisibile eppur possibile ma poi, al fondo della sua visione di quella realtà fa scorgere, ancora una volta, la straniante presenza. Per questo accanto ad un senso di tranquilla armonia coesiste la conturbante consapevolezza, accanto al lirico abbandono, il rigido controllo della coscienza; per questo le monumentali figure sembrano, al tempo stesso, eroine di una possibile vittoria, ma anche vittime di una, egualmente possibile, sconfitta.
Sta qui, a mio parere, l’anima del vento, il suo cioè partire dalla realtà per approdare, dopo essersi consentito il gusto del sogno e dell’avventura, all’assoluto mistero del qui esistere. Lo stesso colore, di cui si intuisce una grande vitalità e quasi il desiderio di più squillanti accordi, appare come spento sulla tela, quasi a segnar l’ora di una mortificata e mortificante sconfitta che per nostra ignorante cecità, ci infliggiamo.
E si, perchè nella pittura di Dina Viglianisi adesso anche l’esatto contrario potrei dire: essere cioè la lucida ed imperdonabile raffigurazione di un deserto scarnificato della coscienza sul quale tuttavia venga a soffiare un consolante vento e ciò a conferma della grande capacità di quest’artista di fissare il pensiero, l’immateriale, l’invisibile, il mistero appunto, servendosi di tutto ciò che è concreto, visibile, materiale. Servendosi, per dir tutto, di una figurazione che, se da una parte è tendenza a rappresentare le cose sensibili così come si presentano alla percezione fisica, in ciò opponendosi all’astrazione, dall’altra appartiene a quella stessa famiglia linguistica da cui derivano non tanto il “figurare” e il “configurare” con cui si amplia l’orizzonte descrittivo fino alla comprensione del simbolo, ma soprattutto quel “figurarsi” che altro non vuol essere che “immaginare” e, dunque, anche “sognare”, “inventare”, “fantasticare”.
Ecco, è qui che soffia il vento di Dina Viglianisi e porta il “figurare” ad un “figurarsi”, il “configurare”, ad un “figurarsi con”, cioè “insieme”, che null’altro è se non invito a cogliere delle cose il senso, della realtà la sua astrazione e della vita il mistero che tutto comprende, la dolcezza del qui esistere come il suo veleno, l’attimo e il tempo lungo, il frammento come lo spazio, la folla come la solitudine. E soprattutto dall’uno all’altro sempre consente (o a ciò condanna?) un reciproco percorso, un andare e venire per cui mai, forse, sarà lecito sostare, questa promessa all’uomo, instancabile pendolo tra sogno e realtà, non essendo stata fatta.

Messina, novembre 1988     
 
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