Francesca Mammana - Dina Viglianisi

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Francesca Mammana

Dina Viglianisi lavora in uno studio in via Sangiuliano: uno di quegli antichi appartamenti - due stanze in tutto, e due piani - con l’ingresso su un cortile dove il tempo sembra sospeso tra fiori, ringhiere arruginite e panni al sole, e la finestra che si affacia sui tetti. Vecchi tavoli, il torchio calcografico, qualche scaffale, una scala ripidissima che si arrampica fino alla soffitta dal pavimento in legno.
Minuta, l’artista, una voce dolce da fanciulla (chissà perchè gli artisti uno se li immagina sempre alti ed imponenti…); ma vuole essere ciò che è, e mostra la sua storia interiore senza incertezze: “Ho cominciato con questo”. “Questo” sono litografie, disegni, nei quali il tratto, sinuoso, ma a volte spezzato, definisce ancora realtà concrete: pur nella sintesi descrittiva, la «vicenda» si rifà ancora a “fatti realmente accaduti”. Nudi, figure in cui il legame realistico è evidente anche se già - e sempre - l’anima della figurazione è quella costante dell’artista: dolcezza, malinconia, solitudine, desiderio indefinito.
Perchè poi il passaggio a quella che rappresenta la “sua”  esperienza figurativa; perchè ha cambiato? É difficile da spiegare: “Sono cose che accadono senza che ce ne rendiamo conto. É come quando si comincia un discorso: si parla si parla, e solo alla fine riusciamo a sintetizzare il fiume in due o tre parole”. Mostra una sua vecchia opera: delle case ammucchiate l’una sull’altra, intonaci colorati e un pò stinti, panni stesi. Quindi espressione di emozioni, sentimenti, suggestioni, non pura ricerca formale.
Poi la sintesi: “Mi sono accorta che era possibile esprimere con pochi tratti, senza stucchevolezze, le stesse cose”. Ma non il cielo, la casa, le persone: esprimere “come” tutto ciò viene vissuto nell’inconscio, le ombre, i fantasmi, le luci della mente e del cuore, tutto per la via più breve, superando d’un salto la zona della razionalità. L’inconscio che si palesa con le immagini fantastiche della mente; che si chiude su se stesso e non trapela se non quando si corrisponde. C’è stato un periodo ad Urbino - racconta - in cui non riusciva più a far nulla. Si`, le solite cose, tirate avanti più per abitudine che per passione. Poi, in una giornata nebbiosa - grigi, ombre tra la nebbia, malinconia - la visita a Venezia, per la Biennale del ‘69, e la visione di un funerale in gondola. É in quel momento “magico e irreale” che Dina Viglianisi ritrova se stessa: “Sento sciogliere dentro di me i segni, le forme, i colori che da qualche tempo stavano aggrovigliati in un nodo di inerzia”, scrive l’artista. E veramente le forme si definiscono, le linee si distendono libere essenziali, a definire contenuti emozionali sottili e velati, racchiusi nella perfezione armonica del contorno. Ombre nude che pian piano acquisteranno volume, che si faranno plastiche, consistenti, pietra impressa dalla pietra nel procedimento litografico, con la morbidezza ed il calore, tenero, che solo la pietra naturale può conferire, come riconosce l’artista deplorando l’uso ormai corrente della lastra metallica, delle “porcherie moderne” - “E non mi si venga a dire che è la stessa cosa…!” - e facendo notare le leggerissime sfumature di tono nelle produzioni grafiche. Le sue figurazioni assumono ormai valore di simboli e del simbolo posseggono la misteriosa e vitale pregnanza, la carica emotiva connessa a realtà dimenticate o rimosse.

Catania, giugno 1978
 
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